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Titolo:
“Vita di paese”
Autore:
Maria Caterina Basile
Editore: Nulla Die
Formato:
cartaceo
Genere:
romanzo di formazione
Prezzo:
10,00 euro
Sinossi:
Vita di paese
racconta la storia di Damiano Pellegrino, trentacinquenne che, dopo
diciassette anni passati a lavorare come barista in Svizzera, ritorna
nella sua terra, il Salento.
Si
tratta di una decisione improvvisa, motivata da una crisi profonda
alla quale egli vuol mettere fine una volta per tutte. Stanco di
vivere nell’incessante rimorso di non essere stato al fianco del
padre la mattina che quest’ultimo era stato colto da un infarto,
Damiano si mette al volante e torna al suo paese, Miraggio.
La
prima persona che incontra è il suo professore di italiano alle
medie, don Carlo Brigante, il quale lo aveva sempre spronato a
continuare gli studi ed a coltivare il suo talento di scrittore.
Damiano è sorpreso nel constatare che l’uomo non solo non ha
smesso di credere in lui, ma addirittura si aspetta ancora che scriva
il libro della sua vita.
Una
forza misteriosa pare voler portare il protagonista a liberarsi dal
rimorso che lo ha condannato alla fuga dalla terra natia e da se
stesso. Pur tentando di continuare a vivere in completo isolamento,
dormendo di giorno e vagando nella notte in preda a sconnessi
soliloqui, pian piano egli comincia a guardarsi con occhi nuovi:
quelli pieni di pietà e misericordia di chi lo circonda. Nei pochi
mesi passati al paese è travolto da un vortice continuo di
riflessioni interiori sull’esistenza: il cambiamento, tutto
interiore, è inevitabile.
Note/commenti/finalità
dell'Autore:
“Vita
di paese”, il mio primo romanzo, racchiude in sé tutta la mia vita
e le mie esperienze letterarie. A giudicare dalle dimensioni (lo si
crederebbe quasi un racconto), non si direbbe; eppure, ho
espressamente voluto che fosse piccolo e intenso come i nostri paesi,
che a percorrerli ci metti un attimo e a narrarli non ti basta una
vita.
Il
libro narra la storia di un’esperienza intimamente vissuta, di un
ritorno al Sud e risente della presenza di due anni passati al Nord
per ragioni di lavoro con la mia famiglia. Restandovi, avrei potuto
scegliere un futuro migliore dal punto di vista lavorativo, ma ho
preferito tornare. E, come scrive Vito Teti, professore di
Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università della Calabria e autore di “Pietre di pane”,
testo di grande ispirazione per “Vita di paese”, restare non è
stato “un atto di pigrizia”, ma “un atto di incoscienza e,
forse, di prodezza, una fatica e un dolore”.
Non
mi dilungherò sulla mia storia personale, ma mi basti dire che mi è
servita a rivalutare tutto quello che mi ero lasciata alle spalle e a
cui, forse, non avevo mai dato abbastanza valore. Mi sono guardata
attorno e mi sono chiesta, per dirla con Ignazio Silone: “Che
fare?”, “Da dove ricominciare?”. Una voce vibrava dentro di me:
“Dalla bellezza che mi resta”. Così ho iniziato a scrivere “Vita
di paese”, tenendo a mente, come scrive Teti, che “dobbiamo
sempre curare l’olio della lampa
della vita e della speranza”.
Ho
voluto contribuire, nel mio piccolo, all’odierno processo di
“legittimazione” del Sud, di riconoscimento della dignità della
sua identità e della sua storia. È vero che quest’ultima è,
sotto molti aspetti, dolorosa, ma non è fatta solo di criminalità e
disoccupazione: esistono anche valori e modi di vivere, di sentire
che raramente trovano spazio nel nostro sistema d’informazione.
Questo
libro mira dunque a diffondere l’idea di un altro Meridione,
contrastando quella diffusa dai mass media. I protagonisti sono
uomini e donne segnati dalla caducità della propria esistenza,
“vinti” sul piano economico ma vincitori su quello del coraggio e
della forza morale. Si tratta di personaggi che credono ancora nei
valori della solidarietà, della partecipazione al dolore altrui, del
soccorso da prestare a chi più ne ha bisogno, sia esso spirituale o
materiale.
Per
quanto concerne l’aspetto letterario, non saprei da dove iniziare,
ma posso dire che dietro ogni parola c’è un poeta, uno degli
scrittori che ho amato nella mia vita, da Pirandello ad Allen
Ginsberg, da Mark Twain a Giovanni Verga, da Fabrizio De Andrè a
Grazia Deledda. Loro mi hanno dato tanto, tantissimo, hanno
rappresentato una fonte inesauribile di speranze e sogni e ho voluto
rendergli omaggio attraverso la mia umile opera.
In
particolar modo, il riferimento più evidente è Pirandello. Oltre
alle “Novelle per un anno” e a “Uno, nessuno e centomila”,
devo molto a “Il fu Mattia Pascal”: in quest’uomo separato
dalla vita, dal paese, dalla famiglia, da se stesso, in quest’uomo
che non vive che di distacchi, è stato facile identificarmi, così
come credo lo sia per tutti i meridionali (giovani e non) che fanno
su e giù per l’Italia e per il mondo.
Pirandello
ha saputo descrivere magistralmente la crisi dell’idea di identità
e di persona in atto nella realtà contemporanea: lo ha fatto così
bene che ancora oggi ci risulta semplice immedesimarci con i suoi
personaggi. Ci sentiamo schiacciati da una società di massa che ci
ha ridotti a suoi meri ingranaggi: da qui la nostra debolezza, il
nostro senso di smarrimento nel constatare che non siamo nessuno, non
consistiamo più in un’identità. È esattamente quello che prova
il protagonista del mio libro, Damiano Pellegrino, il quale, non
tollerando più la sua condizione di “forestiere della vita”,
sceglie di tornare a immergersi nel flusso vitale, comprendendo che
l’unico modo di fronteggiare la sua impotenza di comune mortale è
trovare il coraggio di “accontentarsi” della bellezza che lo
circonda. Infatti, se della società e degli uomini s’impara ad
accettare vizi e virtù, allora diventa più facile guardarsi con
occhi compassionevoli, capire di essere parte di un’umanità
imperfetta ma capace pure di misericordia infinita, di una
misericordia in grado di vanificare perfino i più gravi rimorsi.
Big
da sfidare:
“Il fu Mattia Pascal”, di Luigi Pirandello
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